wrote this story about Ligabue.... ho scritto questo racconto su Ligabue
Cosa
starai mai pensando bracco che mi segui nel bosco. Ti vedo irrequieto muoverti
tra le fronde annusando qualche anfratto umido sulla scia di guizzi di luce tra
le foglie imperlate e lucenti. Mi siedo su un sasso che è livido di rugiada, un
cuscino scivoloso, mi guardo queste mani macchiate, grandi e tozze, mani come
guantoni che però non posso mai sfilare ma sempre portare con me, difensive. Pensano
che sarei violento forse, gli fa paura il mio volto asimmetrico, un po’ sporco.
Il mio viso è una spugna che assorbe quello che c’è intorno a me quando esco
sull’aia o mi siedo sotto un albero sfinito dalla stanchezza.
Come vorrei
avere la tua beata tranquillità mentre dormi, bracco. Ti ruberei solo per un istante la spensieratezza,
il sonno che libera dall’affanno, il passaggio lieve di un sogno, la felicità
di un osso da rosicchiare. Mentre ti guardo con questo tuo sguardo indagatore
che torni a me portando in bocca un bottino sento che tutti i dispiaceri si
placano, è come specchiarsi in un lago e ritrovare quel bisogno di affetto, una
carezza, il tepore di quando ti accucci a miei piedi e ti posso sentir
respirare. Un attimo di tregua.
Mi sento
un po’ come te bracco, ma anche come il gatto ispido che si aggira attorno al
casolare, sai quello che vi vedete e vi si rizza il pelo da lontano e sapete di
dover restar distanti che altrimenti è zuffa assicurata. Se li guardi bene da
vicino i gatti si capisce che sono proprio dei felini, l’occhio giallo che
incute soggezione. Nella notte sono cerchietti che rilucono come per qualcosa
di diabolico. Mi sento un po’ come una fiera, un’enorme groppo qui in mezzo al
torace, un orgoglio d’esistere, di esser salutato con affetto e cordialità. Come
da te bracco che sei mio amico e torni disegnando cerchi sul terreno. Come me
con il rimuginare, anche tu vai e torni, si chiama fedeltà credo, niente a che
vedere con i vestiti inamidati che indossano i signori facendoli sentire
importanti.
Io sono
come il cuore della cipolla.
Non ho
bisogno di tanti strati addosso, tante manfrine o discorsi astrusi che però
sottintendono qualcos’altro. Se uno è cipolla, cipolla resta. Cosa me ne faccio
io di una camicia bianca se non può che rimanere tale solo per un’ora. Io
voglio essere la fiera più forte, voglio farmi vedere, mostrare la bellezza e
potenza della mia livrea, con le mie macchie audaci avanzare maestoso, con le vibrisse
tese a mo’ di spadaccini, incutere soggezione, aprire le fauci facendo
risuonare il rumore fondo dalle viscere, tutt’uno con l’eco del tam tam della
terra, il magma che ribolle e le braci vive che sfavillano incandescenti. Allora
sì che ti porterei in giro come fossi il barboncino di un re, avresti ogni
giorno un pasto succulento, un gran bell’osso da mettere sotto i denti, ti
potresti rotolare sopra un tappeto di velluto. Invece mi tocca portarmi con me
il fucile ed appostarmi a caccia di qualche fagiana, o una lepre forse,
qualcosa che poi possa stipare nella bisaccia.
Ma cos’è
questo baccano? Fermati un momento bracco, siedi qui, stai buono, senza
ansimare, mettiamoci in ascolto. C’è troppo frastuono, non possono essere i
dispettosi che mi lanciano con la fionda, deve essere qualcosa di diverso, ma
per avvicinarci è impossibile non far crepitare le foglie (ecco in questo
momento sarebbe comodo muoverci felpati come gatti) Ecco, stiamo immobili ad
ascoltare, zitti, se smetti solo di agitare la coda. Sì… ho capito, anch’io sto
zitto. Ci guardiamo, alziamo 4 occhi in alto in una rotazione simultanea delle
pupille.
Un
piccolo squarcio nella radura come un sipario si apre ad est là dove si
indovina l’albeggiare. In questa pausa di cielo che si imporpora e si lascia ammirare tra i grovigli di rami
scuri si levano gridolini assordanti, un ininterrotto ritmo di rochi alti e
bassi, un gorgoglio. In perfetto contrappunto alle rane, gli uccelli non
cantano nemmeno, sembrano azzuffarsi in una baruffa selvatica, scomposta.
Sembra levarsi direttamente dagli alberi, come ne fosse la voce. Nette contro
il cielo che si schiarisce le cime si aprono a V come becchi di uccellini senza piume, a
cercare il cibo. È di un’acuta bellezza il cantico del mattino, uno squillo di
tromba che chiama a riposo gli animali della notte e risveglia quelli del
giorno.
Eppure il
canto degli uccelli ora si confonde, è una voce
o un canto? È la frenesia di bambini che si rincorrono in un cortile, una cantilena.
Le palpebre pesano come piombo, come vinte da una forza incontrastabile,
muscoli autonomi che si chiudono alla luce opaca tra le ciglia. Di nuovo
ripiombare nel cortile, un’effervescenza di grida, i bambini si lanciano in una
danza come se corressero a riferirsi una bella notizia che è la corsa stessa,
come gli uccelli che cinguettano tra di loro senza un esatto perché, celebrando
la sola euforia di essere.
È un
sogno ma anche il ritrovamento della radura a momenti, ridestarsi. C’è qualcosa
che trema, forse è il ciclico avvicendarsi delle ruote e degli stantuffi di un
treno. O dondola solo il braccio sinistro? Aprire un occhio, aprire l’altro e
trovarsi faccia a faccia con un uomo coperto da una maschera, gli occhi che si
intravedono dietro una retina semitrasparente. Tutto torna a fuoco bruscamente,
manca poco a mezzogiorno, perché quest’uomo continua a scuotermi la spalla?
Finalmente
smette. Ci guardiamo, zitti per un istante.
“Cosa fa
qui?” mi chiede, “guardi che dietro di lei, ad appena qualche metro, c’è una
fila di alveari, venga via che rischia di essere punto, non l’ha sentito questo
ronzio? ”
Mi alzo
subito, di scatto, barcollo e quest’uomo velato mi offre il suo braccio che
afferro titubante. Bracco si appiccica ai pantaloni e questo strano trio si
muove tra le erbe, raggiungendo un boschetto di argentei salici e di foglioline
festose di pioppo.
“Io sono Mario,
vengo qui per badare ai miei alveari. Tenga qui un po’ di miele, è un favo che
ho appena raccolto. Avrà fame.” Il favo cola il suo bellissimo liquido
vischioso, invitante. “Abito non lontano da qui. Riparo i trattori dei
contadini qui intorno ma conservo sempre il piacere di avere le mie api.”
Mario
tira fuori dalla borsa delle fette di pane e ci spalma sopra grossolanamente il
miele, con l’aiuto di un coltellino che tira fuori dalla tasca, facendo
scattare il serramanico. Anche bracco guarda attento, scodinzolando
freneticamente.
Ci
sediamo sulle radici che affiorano e iniziamo a mangiare senza parole, con
appetito.
Finalmente
trovo le parole che sembravano essere finite giù per lo scarico di un
lavandino, messe in fuga dalla cortesia inaspettata di quest’uomo.
“ Grazie,
signore, siete molto gentile…. Io sarei…. Sarei Antonio…. Antonio Laccabue(*)”
Accarezzo
il muso a bracco, è tempo di rientrare. Stringo la mano di Mario e con passo
ancora incerto ci avviamo sulla strada del ritorno. Sarà una giornata serena, i
pennelli mi attendono.
*liberamente
ispirato alla biografia del pittore Antonio Ligabue (1899-1965)
Ilaria Petrussa 2020
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